I MAS di Luigi Rizzo nel porto di Ancona
I MAS di Luigi Rizzo nel porto di Ancona

All’inizio del 1918 la guerra già volgeva al peggio per l’impero austro-ungarico e i suoi alleati; la flotta in Adriatico aveva subìto pesanti sconfitte a opera dei MAS, piccoli motoscafi che si erano rivelati particolarmente efficaci nelle incursioni di sorpresa e avevano arrecato rilevanti danni alla flotta austriaca e alla sua immagine internazionale.
Il 20 giugno del 1916 due MAS penetrarono nella base di Durazzo silurando due piroscafi all’ormeggio;

il 1° novembre dello stesso anno un altro MAS penetrava nella base di Fasana e lanciava due siluri contro un incrociatore austriaco che non esplosero perché impigliati nelle reti di protezione;

il 9 dicembre 1917 nel porto di Trieste il MAS comandato da Luigi Rizzo riuscì ad affondare la corazzata Wien e a rientrare incolume alla base;

l’operazione più eclatante nella notte dell’ 11 febbraio: tre MAS al comando di Costanzo Ciano penetrarono nella base di Buccari e silurarono tre piroscafi da carico. Su uno dei MAS, comandato da Luigi Rizzo, era imbarcato Gabriele D’Annunzio che in alcune bottiglie lanciate in mare aveva messo messaggi irridenti alla flotta austriaca. Questa operazione è passata alla storia come la “Beffa di Buccari”.

Il 10 giugno del 1918 venne affondata la corazzata Santo Stefano nelle acque di Premuda e il 1° novembre dello stesso anno la Viribus Unitis nel porto di Pola.

Miklós Horthy
Miklós Horthy

L’ammiraglio Miklós Horthy fece predisporre un piano per eliminare l’insidia dei MAS che avevano la loro base nel porto di Ancona.
L’operazione, semplice e ardita, doveva essere condotta da 64 incursori che, vestiti con una regolamentare uniforme della marina austro-ungarica, [1] dovevano attraversare l’Adriatico trasportati da una torpediniera fino a 15 miglia a nord-est da Ancona, trasbordati su un barcone che, navigando in parte a motore e in parte a remi, avrebbe dovuto approdare sulla spiaggia due chilometri a nord di Ancona.
I marinai, inquadrati e a passo cadenzato, si sarebbero diretti verso il porto. I prevedibili posti di controllo italiani non si sarebbero insospettiti nel vedere transitare un reparto in uniforme della marina che di notte non appariva diversa da quella italiana e ai quali si sarebbero rivolti in italiano alcuni componenti del plotone austriaco perfetti conoscitori della lingua, perché originari dell’Istria e della Dalmazia.
Penetrati nel porto, gli incursori avrebbero assaltato i sommergibili e i MAS alla fonda eliminando gli equipaggi, affondando con cariche esplosive i sommergibili e fuggendo con i MAS non prima di aver distrutto o danneggiato il pontone corazzato posto all’ingresso del porto a difesa della base.
Il rientro a Pola, a bordo dei MAS catturati, avrebbe concluso l’impresa con grande impatto mediatico e sarebbe valso a sollevare il morale degli equipaggi e della popolazione austro-ungarici. Il comando della spedizione venne affidato al tenente di vascello conte Joseph Weith, un nobile austriaco originario di Linz di 27 anni che, a fine marzo 1918 con un idrovolante, aveva effettuato un volo di ricognizione sul porto di Ancona.
Gli incursori disponibili erano 58, in prevalenza di nazionalità tedesca e magiara ad eccezione di quattro croati. Il reparto fu completato da quattro cadetti (di cui due di nazionalità italiana), da un triestino, Pavani e da Casari, un trentino suo amico, che accettarono vedendo nell’impresa la possibilità di espatriare in Italia. [2]

Gli incursori, 57, scelti con sorteggio fra 120 volontari, si erano addestrati per oltre un mese, mentre il Casari ed il Pavani erano stati “arruolati” negli ultimi giorni e venivano convocati ogni giorno dall’aiutante di bandiera dell’Ammiraglio Horty che, con la scusa di volerli istruire e preparare, cercava di sondare la loro affidabilità.

Il pomeriggio del 4 Aprile 1918 gli incursori austriaci si imbarcarono a Pola su una lancia a motore, armati di pistola e pugnale, otto moschetti e trentadue chili di dinamite. Nei pressi di Capo Promontore il battello fu affiancato dalla torpediniera “96” che trasferì a bordo i marinai e prese a rimorchio l’imbarcazione e, scortata dal cacciatorpediniere Uskoke, fece rotta verso Ancona.

La navigazione procedette senza intoppi fino a 15 miglia a nord-est da Ancona e alle ore 21 la torpediniera mollò la lancia sulla quale erano stati imbarcati nuovamente gli incursori. L’avvicinamento alla costa, favorito dal cielo nuvoloso e la grande precauzione usata nella navigazione, riuscì perfettamente, nonostante fossero in mare diverse unità costiere italiane in perlustrazione.
A due miglia dalla costa il motore fu fermato e la navigazione proseguì a remi. Molti marinai si erano bendati la testa o fasciato gli arti per simulare una barca di naufraghi, nel caso fossero stati intercettati dalla vigilanza a mare o sulla spiaggia. Avrebbero chiesto soccorso alle pattuglie italiane accorse e poi, di sorpresa, avrebbero soppresso con i pugnali i militari italiani di guardia.

Gli austriaci approdarono verso le 02:00 del 5 aprile sul litorale di Marzocca ritrovandosi a diciassette chilometri da Ancona e non a due come pianificato. Le correnti molto forti avevano spostato verso nord l’imbarcazione durante le due ore di navigazione e il comandante, probabilmente era stato ingannato dalle luci della stazione ferroviaria di Falconara scambiata per quella di Ancona.
Gli austriaci raggiunsero la spiaggia, attraversarono i binari ferroviari disponendosi sulla strada litoranea in colonna per quattro e all’ordine si avviarono compatti verso la città credendo di raggiungerla in breve tempo. Marciarono a passo forzato per oltre tre ore, accorgendosi ben presto dell’errore. Secondo i piani avrebbero dovuto essere al porto di Ancona verso le ore due e trenta, mentre alle cinque erano giunti appena a Falconara.

Qui il tenente di vascello Weith, dato che si era oramai all’alba, decise di occupare “manu militari” un’abitazione e attendervi la notte successiva per effettuare l’azione. Visto un casolare isolato sulla collina in località Barcaglione di Torretta lo circondarono. Mentre gli ufficiali vi entravano intimando agli abitanti, una donna con un bambino e due ragazze, di rinchiudersi in una stanza e di non fiatare, il distaccamento si sistemava nelle altre camere.
Intanto, alle prime luci dell’alba, verso le cinque e trenta, una pattuglia della Guardia di finanza in servizio di perlustrazione sul litorale di Marzocca (precisamente tra i caselli 185 e 186 della linea ferroviaria), avvistava una imbarcazione arenata sulla spiaggia. Era una barca a motore entrobordo a 16 remi con a prua lo stemma della Marina Militare austro-ungarica, nella quale vennero rinvenute bende, razzi da segnalazione e involucri vuoti di materiale esplodente.

Nelle vicinanze vi erano orme di passi sulla sabbia che si perdevano verso l’interno. Veniva dato l’allarme: sul posto accorrevano i responsabili della difesa costiera e iniziarono le ricerche degli sbarcati che si riteneva fossero una ventina di uomini.
Furono perquisiti casolari e fattorie di Marzocca e dintorni nella ipotesi che gli incursori mirassero agli hangar aeronautici di Jesi o cercassero di internarsi per sabotare gli opifici di Terni.
Nella tarda mattinata l’imbarcazione austriaca venne disincagliata da un mezzo della Marina Militare e trainata nel porto di Ancona. Ovviamente tutte le ricerche risultarono infruttuose e non si ebbe nessun sentore degli sbarcati, salvo vaghi indizi che sviarono la direzione delle ricerche, escludendo il vero obiettivo degli incursori: il porto di Ancona.

Durante la mattinata del 6 aprile il tenente Weith inviò ad Ancona un cadetto che parlava italiano, travestito da contadino. Questi ritornò verso sera riferendo che i MAS non si trovavano più presso i sommergibili ma presso lo zuccherificio del Mandracchio in prossimità della Mole Vanvitelliana.

La casa colonica occupata dagli austriaci era in posizione sopraelevata rispetto al porto di Ancona e quindi gli incursori, durante il giorno, avevano potuto memorizzare la topografia dei luoghi ed individuare i nuovi obiettivi. Era oramai indubbio che le difese italiane erano allertate al massimo: lo stesso Weith aveva potuto vedere la loro imbarcazione arenata sulla spiaggia che veniva rimorchiata in porto da unità militari italiane.

Luigi Rizzo
Luigi Rizzo

Il comandante decise pertanto di rinunciare all’attacco ai sommergibili e agli impianti portuali e di limitarsi alla cattura dei MAS [3] con i quali rientrare rapidamente a Pola, lanciando eventualmente i siluri nell’interno del porto, prima di uscire in mare aperto.
Attorno alle 20 fu deciso di lasciare la casa di Barcaglione, non prima che il marinaio Casari, su incarico del Weith, avesse minacciato l’inquilina di far brillare cariche esplosive in caso avesse dato l’allarme.
Il distaccamento rimase appostato nella zona fino oltre le 23 del 5 aprile, quando il comandante inquadrò i marinai, li condusse sulla strada litoranea e li fece marciare compatti verso la città che distava meno di due chilometri. Gli ufficiali erano collocati due in testa e due in coda, mentre il tenente di vascello Weith si manteneva al centro del plotone. Chi conosceva l’italiano parlava a voce alta. La maggior preoccupazione, a quel punto, era l’attraversamento della cinta daziaria, presidiata da un nucleo di Carabinieri e di Militi Territoriali.

Occorreva passare per uno stretto cancello e quindi fu necessario dare l’alt. Il cadetto Mondolfo dichiarò alle guardie che il distaccamento era in possesso solo di effetti personali non soggetti a dazio ed ebbe il via libera. Riferì poi di aver udito una delle guardie esclamare: “Ecco gli inglesi”.
Proseguirono quindi indisturbati verso la stazione ferroviaria, ma a mezza via fu riferito al comandante che il marinaio Pavani si lamentava di essere stanco e cercava di staccarsi. Poiché le strade non erano deserte, Weith diede l’ordine ad un ufficiale di tenere d’occhio il recalcitrante, ma di evitare di fare chiasso. Il Pavani, intanto, si era staccato e fu visto parlare con due civili. Il marinaio Casari allora vide il momento opportuno per dileguarsi e per non dare sospetti si mise a correre verso l’amico, imprecando e dando ad intendere che volesse raggiungerlo per ricondurlo nei ranghi. Intanto il plotone, seguendo la strada, aveva curvato, e i due erano stati persi di vista. Di lì a poco furono uditi degli spari (era il Casari che aveva esploso alcuni colpi in aria per richiamare l’attenzione della vigilanza) che Weith credette essere stati esplosi per fermare la fuga del Pavani.

A quel punto tutti ebbero la certezza di essere stati scoperti e ciò provocò lo scoramento dei marinai. Per risollevare il morale degli incursori, il cadetto Mondolfo diede l’alt al plotone e con molta faccia tosta chiese a due ufficiali di passaggio che gli fosse indicata la via più breve che conduceva a Porta Pia. Essi diedero le spiegazioni dovute con molta gentilezza: nemmeno loro si erano accorti delle differenti uniformi e quindi l’azione proseguì indisturbata.

Gli austriaci giunsero al Mandracchio, arrivarono a Porta Pia, infilarono il ponte che separa la terraferma dall’imponente manufatto e si inoltrarono sulla stretta passerella che per un certo tratto girava attorno all’edificio.

Erano di servizio sul corridoio scoperto sopra il muraglione della Mole, due finanzieri, Carlo Grassi e Giuseppe Magnucco, con compiti di vigilanza fiscale e non di vigilanza militare, i quali, all’apparire dei marinai, diedero il “Chi va là”. Gli austriaci risposero in italiano dicendo di essere marinai della Regia Marina che si recavano a bordo dei motoscafi.

I finanzieri, credendoli italiani, lasciarono passare gli intrusi che si diressero verso l’ormeggio dei MAS che però quella notte erano fuori dal porto per la sorveglianza litoranea, in conseguenza dell’allarme della giornata. Soltanto un motoscafo era rimasto all’attracco in avaria.
Non completamente rassicurati, Grassi e Magnucco seguirono i marinai dall’alto, lungo il marciapiede. Mentre la testa del distaccamento, giunta all’estremità della passerella e transitando per una chiatta entrava nel MAS, un incursore, salendo si avvicinò alle due guardie parlando in italiano, ma improvvisamente, estratto il pugnale, vibrò un colpo al Grassi che cadde a terra. Il Magnucco fu lesto a retrocedere di alcuni passi e a fare fuoco con il moschetto contro l’aggressore che rispose a revolverate senza colpirlo e sùbito dopo si ritirò di sotto.

Il finanziere ebbe la prontezza di correre rapidamente lungo il corridoio fino all’ingresso della passerella per tagliare la ritirata ai nemici. Da questo appostamento ingaggiò un conflitto a fuoco con gli austriaci che nel frattempo si erano accorti che l’unico MAS rimasto nel porto era inutilizzabile.
Il tenente di vascello Weith decise di arrendersi poiché si era reso conto di non avere via di scampo oltre al fatto di non aver potuto catturare i MAS, di avere conseguentemente precluso il rientro a Pola e di trovarsi nel cuore di una piazzaforte nemica con le forze di difesa ormai allertate.

Il Magnucco, lasciato cautamente l’appostamento, senza essere visto dagli avversari si recò di corsa alla portineria ove nel frattempo si era trascinato il finanziere Grassi e gridò al portiere di chiamare rinforzi. Venuto a conoscenza che l’allarme era già stato dato, tornò rapidamente all’appostamento contemporaneamente a una pattuglia di territoriale comandata dal brigadiere dei Carabinieri Anarseo Guadagnini, avvisato dai due disertori.

Dopo circa 30 minuti, arrivati consistenti rinforzi, fu intimata la resa e gli incursori furono catturati: il comandante, quattro cadetti e 54 marinai. Tre di questi ultimi erano riusciti a dileguarsi, disperdersi in città e nei dintorni ma sarebbero stati poi tutti catturati nei giorni seguenti.
Era accorso sùbito sul posto anche il comandante Rizzo, il leggendario violatore dei porti nemici e affondatore di grandi unità austro-ungariche, la cui cattura o uccisione era uno degli obiettivi della missione. Egli interrogò personalmente alcuni dei prigionieri e si congratulò con il tenente di vascello Weith per il coraggio dimostrato. [4]

finanzieri Magnucco e Grassi
finanzieri Magnucco e Grassi

In quei giorni Vittorio Emanuele III, il Re d’Italia, si trovava ad Ancona e naturalmente fu subito informato degli avvenimenti ed espresse il suo compiacimento per la sventata incursione nemica concedendo “motu proprio” la medaglia d’argento al Valor Militare ai finanzieri Magnucco e Grassi e al brigadiere dei Carabinieri Guadagnini.

L’incursione austro-ungarica su Ancona del 5 e 6 aprile 1918 presenta indubbiamente una genialità di ideazione ed una semplicità di esecuzione che soltanto per cause fortuite non fu potata a compimento. Un grave errore di rotta portò il distaccamento nemico a sbarcare tredici chilometri a nord dal punto previsto mettendo in allarme la difesa costiera. In guerra l’imprevisto non consente mai di portare a termine un’impresa negli esatti termini programmati.

L’episodio dimostrò l’inadeguatezza del dispositivo di difesa costiera e avviate numerose inchieste.
Per queste deficienze furono destituiti i tenenti generali comandanti [5] rispettivamente del Corpo d’Armata e della Divisione di Ancona, mentre i componenti delle pattuglie di vigilanza sulla spiaggia furono deferiti al Tribunale Militare e successivamente condannati a pene detentive.

Traendo spunto dalle risultanze dell’inchiesta, l’ammiraglio Thaon de Revel, il 21 aprile 1918, nel consegnare copia della relazione sui fatti e accertate le responsabilità, propose al Ministro della Marina i seguenti provvedimenti disciplinari a carico di:

1. Capitano di Vascello Cavassa Arturo – Comandante della Difesa Marittima di Ancona – un mese di arresti in fortezza: per non aver durante il lungo esercizio della sua carica studiato ed attuato i necessari provvedimenti per la vigilanza e difesa della parte sud del porto;
2. Capitano di Corvetta Rizzo Luigi – Capo squadriglia MAS – sette giorni di arresti di rigore: perché sebbene fosse stato avvertito dello sbarco del nucleo nemico e avesse ricevuto l’ordine di intensificare la vigilanza sulle unità dipendenti, non concretò provvedimenti efficaci, né impiegò o richiese i mezzi adeguati per attuarli;
3. Capitano di Vascello Galleani Leoniero – Comandante Marina Militare di Ancona – severo rimprovero: perché non ebbe il pronto e sagace apprezzamento nelle circostanze da cui derivò la mancanza di controllo, che avrebbe fatto apparire l’insufficiente proporzione delle misure di vigilanza adottate, in rapporto ai possibili tentativi del nemico, a nostro danno nella parte sud del porto.

Anche la Guardia di Finanza, dal canto suo, fu investita dall’inchiesta, seppur con riguardo soprattutto al funzionamento dei controlli lungo la linea costiera, dando preminenza a quegli aspetti che avrebbero contribuito ad evitare che il reparto nemico giungesse fin dentro la città.
In particolare, è lo stesso Comandante del Circolo di Ancona che al tenente generale Tettoni riferì che il servizio a marcia ronda nel locale della raffineria e deposito franco di Ancona, dove avvenne il fermo dei marinai nemici, è un servizio d’istituto e non costiero, che fu eseguito sempre normalmente da un solo militare e che fu rafforzato nella notte dal 5 al 6 in seguito agli ordini dati nell’apprendere lo sbarco di Marzocca.

Stupefacente, infine, è come i componenti del plotone di marinai austro-ungarici che per ventiquattro ore si erano impunemente aggirati in un territorio fortemente presidiato e nell’interno di una munita base italiana non ebbero a lamentare nemmeno un ferito; infatti l’unico colpito fu l’eroico finanziere Grassi, comunque dimesso guarito dopo una breve degenza all’ospedale di Ancona.
Se l’incursione austro-ungarica fosse stata portata a termine secondo i piani, le ripercussioni morali e mediatiche avrebbero senz’altro oscurato i successi italiani della “Beffa di Buccari” e del volo di D’Annunzio su Vienna del successivo 9 agosto 1918.
Fu merito di due oscuri finanzieri l’aver fatto fallire un piano così ambizioso.

Lo stesso argomento è stato approfonditamente trattato in un saggio di Giuseppe Morgese pag. 59 del libro Trame disperse a cura di Marco Severini, Marsilio Editore in Venezia, che riporta una lettera espresso spedita il 6 aprile 1918 da Ancona a Roma: [6]

Caro Vittorio,
Ti riuscirà gradito conoscere nei suoi particolari i nostri avvenimenti durante le ultime 48 ore che fortunatamente si sono conclusi senza nessun danno per Ancona e con la cattura di ben 62 fra ufficiali, sottufficiali e marinai scelti austriaci.
E altra notte con una lancia a remi della Brandburgo questo cospicuo gruppo di marinai nemici ha potuto prendere terra a Marzocca presso Senigallia. Pare secondo prigionieri fatti che costoro mirassero a scendere più vicino ad Ancona ma che per un errore nel guidarsi colla bussola lo sbarco sia avvenuto alla distanza da 25 a 30 km dalla nostra città. E fu questo uno dei primi elementi per cui l’impresa fallì.
Il numeroso gruppo lasciava la lancia in balia del mare. Del munizionamento portato, portavano seco pugnali, bombe a mano, cartocci di dinamite, revolver e qualche carabina; lasciavano a bordo altra dinamite ed anche dei rimasugli di pane fresco. Erano tutti in divisa austriaca compreso il tenente che li comandava e i sette cadetti uno dei quali parlava magnificamente italiano. È davvero inconcepibile che un gruppo così numeroso abbia potuto sbarcare indisturbato.
Né le sentinelle della finanza né le pattuglie di carabinieri e soldati lungo la via ferroviaria ebbero il minimo sentore di questo sbarco. Il gruppo nemico indisturbato prese la strada nazionale e poté raggiungere durante la notte la vicina Falconara e sorpassarla. Vedendo però che con il percorso di 15 o 16 km avevano perduto quasi tutta la notte e stava per sorgere l’alba ritenevano opportuno di sospendere l’azione che doveva svolgersi nella notte stessa e riusciti a penetrare in una casa di Palombina ove trovavano una donna sola con due bambini, vi si chiudevano dentro, serrando in una camera la donna coi suoi figliuoli, minacciandola di morte se avesse parlato.
Dentro questa villetta gli austriaci passarono la giornata di ieri. Frattanto però alcuni nostri pescatori avvistavano la lancia abbandonata e la nostra marina se ne impadroniva, comprendendo subito, specie per la presenza dei rimasugli di pane fresco, che non doveva trattarsi di una barca venuta alla deriva o che avesse spezzato gli ormeggi, ma che doyeva trattarsi di qualche impresa per cui qualcuno doveva essere sceso a terra non riuscendo poi a risalire a bordo. Si disponeva perciò un attivo servizio di perlustrazione che non dava alcun risultato; si davano istruzioni alle barriere daziarie per l’accurato controllo di chi entrava ed usciva. Ma purtroppo i fatti che susseguirono dimostrano con quanta poca perspicacia fossero compiuti questi servizi.
Giunte le ore 23 circa della notte scorsa, gli austriaci con tutte le loro armi uscirono dalla casa di Palombina; si disposero per quattro con il Comandante in testa e senza alcun disturbo giunsero cosi sino alla barriera daziaria a fianco della stazione ferroviaria. Giunti là il cadetto che parlava bene l’italiano si rivolgeva ai marinai dicendo, su ragazzi, via le sigarette siamo in città; al passo: una due, una due…
Guardie daziarie, carabinieri, agenti di pubblica sicurezza che erano di sorveglianza alla barriera ingannati da queste parole e dal perfetto ordine di marcia non ponevano attenzione alla piccola differenza che passa fra la divisa dei marinai austriaci e quella dei nostri, per cui il drappello tranquillamente entrava nel cuore della città. Però poco prima del palazzo Gozzi, due degli austriaci rimasti in coda alla prima svoltata a destra, che è una stradicciola che conduce all’opificio Cacciari, vi si slanciavano, e mentre uno di questi gridava: salvatemi, l’altro sparava colpi di revolver per richiamare l’attenzione della forza.
Intanto però il drappello continuava imperterrito la sua marcia verso Porta Pia; giunto davanti il Marotti accadeva questo grazioso episodio: che l’on. Bocconi veniva fermato da una pattuglia di carabinieri mentre si recava ad accompagnare il figliuolo alla stazione ed era richiesto dei suoi documenti.
I carabinieri lasciavano invece indisturbato il drappello dei marinai, nonostante che questi, visti i carabinieri si disponessero in modo strano fermandosi ed addossandosi al muro di casa Salvi. Andati via i carabinieri gli austriaci ripigliavano l’ordine di marcia, giungevano innanzi alla raffineria, scendevano la scaletta che da via Nazionale conduce alla banchina di fronte all’ingresso della raffineria stessa, sorpassavano il ponte che lega la raffineria alla terra ferma e si lanciavano nella passerella che gira a destra attorno all’edificio e che conduce al punto ove solitamente sono attraccati i motoscafi e dove è il pontone armato Faà di Bruno con i cannoni da 381, e dove sono altresì numerose siluranti.
Su questa passerella gli austriaci trovarono finalmente un intoppo e fu una guardia di finanza che impedì loro il passaggio avendo la consegna di impedire l’accesso a chiunque transitasse di là. Un ufficiale austriaco fece ad insistere che erano marinai nostri e che dovevano rientrare a bordo, ma la guardia in questo corridoio non cedeva. Fu allora che uno dei marinai nemici lo assaliva di fianco e cercava di tagliargli la gola con il pugnale, riuscendo a fargli una larga ferita nel collo e nella spalla, dalla quale si spera salvarlo. Richiamata dai lamenti del compagno, accorreva anche un’altra guardia e sparava due fucilate all’aria, al cui fragore accorreva un gruppo di dieci carabinieri che con il loro brigadiere si lanciarono coraggiosamente contro i 60 nemici, i quali di fronte al risoluto contegno dei nostri gettavano in mare le bombe a mano, i tubi di dinamite ed i pugnali.
Mentre così si arrendevano, altri carabinieri e guardie accorrevano dalla stazione in seguito all’avvertimento dei due austriaci (di cui uno triestino) che come già dissi erano fuggiti vicino al palazzo Gozzi. Catturati, vennero tutti portati in un locale attiguo alla raffineria ed interrogati. Essi hanno confessato che il loro piano era quello di impadronirsi dei motoscafi, di silurare con i motoscafi il Faà di Bruno e le altre unità in porto, di uscire poi unendosi alla flotta la quale, approfittando dello scompiglio delle nostre difese, avrebbe bombardato Ancona. Si sono doluti di aver sbagliato il punto in cui atterrarono; si sono rammaricati di aver lasciato la barca abbandonata che destò i sospetti; hanno reso omaggio al Comandante Rizzo, il siluratore del Wien, che presenziava agli interrogatori e che è il Comandante del nostro gruppo dei motoscafi.
Per fortuna questi la notte scorsa erano usciti in perlustrazione e gli austriaci riuscirono a saltare a bordo solo all’unico che era rimasto a riva perché aveva il motore avariato. Cercarono di metterlo in moto ma non vi riuscirono. Il tenente di vascello che li comandava è quello stesso che 20 giorni fa volò sopra Ancona e riuscì a prendere magnifiche fotografie, restando lungamente nel nostro cielo senza che le difese antiaeree se ne accorgessero, ciò che ha dato luogo ad aspri commenti della nostra cittadinanza, la quale se anche questa volta se lè cavata, lo deve alla provvidenza.
Le fotografie prese allora erano nitidissime; si scorgeva ottimamente come era disposto il nostro naviglio; per di più costoro erano muniti di una ottima carta del nostro porto. La felice risoluzione di questa avventura ha messo di buon umore la città che ha avuto poi la gioia di acclamare S.M. il Re trovato sin qui per caso in questa contingenza.
Quest’oggi però avevamo un’altra scossa di nervi perché improvvisamente rimbombava il cannone. Erano due velivoli nemici che venivano a rendersi conto di ciò che avevano compiuto i loro compagni. (…) pare che qualche altro elemento nemico sia rimasto ancora in circolazione (…) Max (Vettori) viene in questo momento a raccontarmi che uno ne hanno preso a piazza Roma. Che non ci facciano cattivi scherzi! Come vedete qui ci stiamo spassando ed auguriamoci che tutto si limiti a questo genere di spassi. Un abbraccio.

Incursori prigionieri, foto di gruppo
Incursori prigionieri, foto di gruppo

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[1] La misura si rendeva necessaria per ottemperare alle leggi di guerra che prevedevano che le operazioni militari dovessero essere condotte soltanto da personale in uniforme regolamentare. In caso di cattura il distaccamento austriaco avrebbe goduto del trattamento riservato ai prigionieri di guerra (come in effetti accadde) evitando la fucilazione prevista per chi perpetrava atti di guerra in abiti civili o con uniformi di forze armate di Paesi diversi.

[2] Intervista a Mario Casari da “Il giornale d’Italia” 2 febbraio 1919.

[3] Dichiarazione del tenente di vascello Joseph Weith acquisita negli archivi della Marina di Vienna dal generale Gualtiero Santini e pubblicate sulla “Voce Adriatica” del 9 luglio 1963. 5 Archivio Storico del Museo Storico della Guardia di Finanza.

[4] Tra i documenti trovati addosso ad uno degli incursori vi era anche la fotografia del capitano di corvetta RIZZO.

[5] Archivio Storico del Museo Storico della Guardia di Finanza – Sentenza del Tribunale Militare di Ancona del 17 agosto 1918, confermata dal Tribunale Supremo Militare il 26 novembre 1918, Miscellanea, fasc. 493 n.8

[6] Missiva spedita dall’avvocato Guglielmo Vettori al fratello Vittorio direttore de “l’Ordine” che si trovava a Roma nella sua qualità di redattore politico del “Giornale d’Italia.”

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